La storia dell’arte ha spesso associato, nel corso dei secoli, un autore o un collettivo ad un luogo, per sottolineare diversi aspetti (la discendenza stilistica, la particolare suggestione dei luoghi, etc.).
Si pensi, a tal proposito, a nomi quali Gentile da Fabriano, Michelangelo Merisi da Caravaggio, o, per avvicinarsi all’evo contemporaneo, sempre nell’ambito dei confini nazionali, alla Scuola di Castiglioncello, denominazione sotto cui si fanno rientrare, dall’inizio, Telemaco Signorini, Giuseppe Abbati e Michele Tedesco.
Tutto ebbe inizio, in questo caso, dalla volontà del critico toscano Diego Martelli di trascorre alcuni giorni in un rustico di sua proprietà nella succitata località, un vero e proprio locus amoenus, per trovare conforto dalla dipartita paterna. In tale edificio, che si trovava in una posizione mirabile, su un’altura a poche centinaia di metri dal mare, egli ospitò gli artisti Telemaco Signorini, Giuseppe Abbati e Michele Tedesco, dando vita ad un vero e proprio cenacolo intellettuale.
Luca Ripamonti, sebbene non sia associato ad alcun toponomastico, sicuramente condivide con il gruppo di cui sopra la fascinazione per l’elemento naturale, considerando che ha respirato a pieni polmoni, sin dalla più̀ tenera età̀, l’aria di Santa Maria Maggiore, nel Verbanese, nella cosiddetta Valle di Vigezzo, conosciuta come la “Valle dei pittori”.
Egli si affaccia al mondo dell’arte con spontaneità e curiosità; il suo entusiasmo vivo e sincero è sicuramente la peculiarità che lo rende prolifico e apprezzabile.
Se i pittori di Castiglioncello erano capaci di ammirare e di riportare su tela quel gioco di contrasti tra le tamerici e i lecci, tra i verdi freddi del sottobosco e le calde tonalità ocra del terreno, tra gli sfondi dorati della spiaggia e quelle sfumature pelagiche verde – azzurro, il Nostro si dimostra in grado di riprodurre quei silenzi spirituali della montagna, del mare, del lago. In ciò egli è erede di una pittura in cui il paesaggio rifiuta di essere relegato ad una mera funzione accessoria nell’economia generale dell’opera, in riferimento alla quale, invece, chiede a gran voce il ruolo di protagonista.
Ecco, quindi, come nei credi animisti, lavori che prendono vita al suono di cromìe diversificate, in cui l’arancio vivo viene stemperato dal grigio lattiginoso o, sulla scia della corrente romantica, turbini e flutti spumosi blu – azzurro, che vogliono mettere in scena l’imperiosa e trainante forza della Natura, di fronte alla quale l’uomo ha una sensazione unica, in bilico tra lo sbigottimento e la meraviglia. Non manca, inoltre, la trattazione della figura umana, diversamente atteggiata. In questo filone emerge la carica emotiva affidata al volto, in particolare agli occhi, i quali riescono a restituire l’insieme di sensazioni provate dal soggetto effigiato in precise contingenze spazio – temporali.
Tra sensualità e disperazione, Ripamonti mette in mostra una vera e propria «comédie humaine» (per dirla alla Balzac): un affresco complesso, un saggio di arte visuale in cui rifulgono vizi e virtù dell’uomo. Rotondità e durezza del tratto, luci ed ombre accompagnano le sagome che si stagliano sullo sfondo, volutamente semplificato per permettere allo spettatore di concentrarsi sulle anatomie e sui messaggi ad esse legati.
Si noti, altresì, una tendenza surrealista e metafisica, in cui le nature morte diventano oggetti di un quotidiano eroico, ove un palloncino colorato, coraggioso, sembra approdare sul territorio lunare, vessillo di vita, di futuro, di speranza.
Dott. Ivan Caccavale
Storico, critico e curatore d’arte